Astronews a cura di Massimiliano Razzano
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20/04/2018 - Lanciata con successo TESS, la nuova missione NASA che andrà a caccia di pianeti extrasolari
Lanciata con successo TESS, la nuova missione NASA che andrà a caccia di pianeti extrasolari
Abbiamo una nuova sentinella spaziale che andrà alla ricerca di pianeti intorno ad altre stelle. La missione Transiting Exoplanet Survey Satellite (TESS) della NASA è stata infatti lanciata con successo nella notte fra il 18 e il 19 aprile (00:51 ora italiana). Il lancio è stato effettuato con un vettore Falcon 9 realizzato dalla SpaceX di Elon Musk, che dopo il lancio da Cape Canaveral è rientrato come da programma su una “nave drone” di appoggio nell’Atlantico. TESS è considerato il successore del telescopio Kepler e ci permetterà di compiere nuovi importanti passi in avanti nello studio degli esopianeti.
La missione di TESS durerà due anni, durante i quali il telescopio osserverà un campione di 350 mila stelle fra le più brillanti del cielo. In modo analogo a Kepler, per scoprire nuovi pianeti TESS sfrutterà il metodo dei transiti, osservando cioè le deboli fluttuazioni di luce causate dal passaggio degli esopianeti di fronte alla loro stella principale. A differenza di Kepler, TESS non osserverà un ristretta regione di cielo ma monitorerà tutta la volta celeste, osservando un campione di stelle molto luminose. Secondo le stime, nel corso della sua missione principale TESS potrebbe scoprire circa 20 mila nuovi esopianeti, 500 dei quali di dimensioni paragonabili a quelle della Terra, offrendo un campione ancora più ampio per studiare la formazione dei pianeti nella Galassia e andare a caccia di gemelli del nostro pianeta.
Nell’immagine: Il lancio di TESS (NASA)
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17/04/2018 - Dalla fantascienza alla mitologia, anche Caronte ha la sua toponomastica
Dalla fantascienza alla mitologia, anche Caronte ha la sua toponomastica
Ci sono i monti Clarke, dedicati allo scrittore di fantascienza autore di 2001:Odissea nello spazio, e c’è il monte Kubrick, dedicato al regista che nel 1968 trasformò il romanzo di Clarke in una pietra miliare del cinema di fantascienza. Sono solo due dei nomi scelti dall’Unione Astronomica Internazionale (IAU) per le formazioni geologiche di Caronte, la più grande luna di Plutone. Anche Caronte ha quindi una sua toponomastica ufficiale, decisa dall’IAU in seguito al successo della missione New Horizon, che ha visitato il satellite di Plutone nel corso della sua missione. Una toponomastica che trae ispirazione dal mondo della fantascienza, della mitologia e dell’esplorazione dello spazio.
Caronte è uno degli oggetti più grandi nella fascia di Kuiper ed è molto ricco di formazioni geologiche, analogamente alla nostra Luna o ad altri satelliti nel Sistema Solare. Monti, crateri e valli che ora hanno ricevuto un nome ufficiale grazie all’IAU, l’ente che ha l’autorità a livello internazionale sulla toponomastica astronomica. Un ruolo chiave in questa fase l’ha avuto il team della missione New Horizon, che ha proposto i nomi in seguito alla campagna Our Pluto (il nostro Plutone) che si è svolta online nel 2015. I nomi celebrano l’epica esplorazione di Plutone condotta da New Horizon, e pertanto sono stati scelti in modo da celebrare lo spirito di esplorazione umana. Quelli di Caronte sono nomi ispirati alla letteratura, dalle antiche leggende ai cult della fantascienza moderna, in uno spirito decisamente internazionale.
Articolo originale:
https://www.iau.org/news/pressreleases/detail/iau1803/
Nell’immagine: La superficie di Caronte con la nomenclatura approvata di recente dall’IAU (NASA/JOHNS HOPKINS UNIVERSITY APPLIED PHYSICS LABORATORY/SOUTHWEST RESEARCH INSTITUTE)
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13/04/2018 - Sholz, la stella che ci ha “sfiorato” 70 mila anni fa
Sholz, la stella che ci ha “sfiorato” 70 mila anni fa
In un passato non troppo lontano abbiamo ricevuto una visita interstellare. Lo conferma un nuovo studio apparso su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society, secondo il quale 70 mila anni fa il nostro Sistema Solare fu visitato da una stella di passaggio, che arrivò a circa 0,5 anni luce dal Sole. In termini astronomici si tratta di un vero e proprio “incontro ravvicinato”, che gli astronomi hanno ricostruito a partire dagli effetti che questa stella ha avuto sulla Nube di Oort, il gigantesco “serbatoio di comete” ai confini del Sistema Solare. Il risultato non solo getta luce su un importante episodio del passato del Sistema Solare, ma ci aiuta a capire meglio le interazioni fra il Sole e le stelle vicine.
La stella in questione è chiamata la stella di Sholz, oggi si trova a circa 20 anni luce da noi. Si tratta in realtà di un sistema doppio chiamato WISE J072003.20-084651.2, formato da una nana rossa e da una nana bruna. Secondo il nuovo studio, coordinato da Carlos de la Fuente Marcos dell’Università Computense di Madrid, circa 70 mila anni fa potrebbe aver sfiorato il nostro Sole, in termini astronomici s’intende. La scoperta è avvenuta nel 2015, e il nuovo studio conferma questo episodio a partire dalle traiettorie di 340 oggetti nella nube di Oort. Studiando le orbite di questi oggetti e confrontandole con i risultati di apposite simulazioni al computer, ci si aspetterebbe una distribuzione uniforme, mentre così non è “La pronunciata maggior densità appare proiettata nella direzione della costellazione dei Gemelli” suggerisce de la Fuente Marcos, “che corrisponde con l’incontro ravvicinato della stella di Scholz”.
Nell’immagine: Raffigurazione artistica della stella di Sholz (Michael Osadciw/University of Rochester)
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09/04/2018 - Chi sta vincendo il “braccio di ferro” fra le Nubi di Magellano?
Chi sta vincendo il “braccio di ferro” fra le Nubi di Magellano?
C’è grande movimento oltre i confini della nostra Galassia. Un team internazionale di astronomi ha infatti mostrato che la Grande e la Piccola Nube di Magellano sono impegnate in un colossale “braccio di ferro” astronomico, in cui si strappano materia a vicenda. Frutto dell’interazione gravitazionale fra le due galassie, questa gara fra le due galassie satelliti della Via Lattea ha anche un impatto sulla struttura della nostra Galassia. Come spiegato su The Astrophysical Journal, il materiale delle due Nubi di Magellano viene infatti convogliato in parte nella Via Lattea e va ad alimentare i processi di formazione stellare, e pertanto studiare questa interazione più in dettaglio aiuta a capire meglio l’evoluzione della nostra Galassia.
Il lavoro parte dallo studio del cosiddetto Braccio Avanzato della Corrente Magellanica, un insieme di nubi che formano un ponte fra la Via Lattea e le Nubi di Magellano. E’ però importante capire da quale delle due Nubi provenga soprattutto il gas, cioè quale delle due galassie sta strappando più materiale all’altra. Per scoprirlo, il gruppo di ricerca, coordinato da Andrew Fox dello Space Telescope Science Institute di Baltimora, ha utilizzato una serie di osservazioni in luce ultravioletta condotte dal telescopio spaziale “Hubble”. In particolare, Fox e colleghi hanno osservato sette quasar molto distanti, la cui luce attraversa il Braccio Avanzato. Studiando come questa luce viene assorbita, è quindi possibile fare una accurata analisi chimica del materiale del Braccio, e in questo modo i ricercatori hanno scoperto che il gas appartiene soprattutto alla Piccola Nube di Magellano. La sua sorella più grande sta quindi strappando una maggiore quantità di gas dalla galassia più piccola, vincendo così, almeno per ora, questa curiosa sfida nello spazio.
Nell’immagine: Il Braccio Avanzato della Corrente Magellanica (Crediti: D. Nidever et al., NRAO/AUI/NSF and A. Mellinger, Leiden-Argentine-Bonn (LAB) Survey, Parkes Observatory, Westerbork Observatory, Arecibo Observatory, and A. Feild.)
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04/04/2018 - Sempre più lontano, grazie alle lenti gravitazionali
Sempre più lontano, grazie alle lenti gravitazionali
Non avevamo mai visto una stella così lontana. Un oggetto impossibile da vedere con gli attuali telescopi, se non fosse che questa volta la fortuna ci ha messo lo zampino. Grazie al fenomeno delle lenti gravitazionali, l’immagine della stella LS1 è stata ingrandita più di duemila volte, rendendola visibile con il telescopio spaziale “Hubble”. Le immagini di questa nuova stella da record sono state pubblicate e discusse in un articolo apparso su Nature Astronomy, e il loro studio ci permetterà di capire più fondo l’evoluzione delle stelle nell’Universo primordiale, la struttura degli ammassi di galassie e la natura della materia oscura.
Infatti il team internazionale di astronomi, coordinato da Patrick Kelly dell’Università del Minnesota, Jose Diego dell’Istituto di Fisica di Cantabria in Spagna e Steven Rodney dell’Università della Carolina del Sud, stava utilizzando il telescopio spaziale “Hubble” per osservare la supernova “Refsdal”, così soprannominata in onore dell’astronomo norvegese Sjur Refsdal, che nel 1964 suggerì la possibilità di utilizzare la combinazione di supernovae e lenti gravitazionali per studiare l’espansione dell’Universo.
Durante le osservazioni dell’ammasso, i ricercatori hanno notato la presenza della nuova stella, denominata LS1, nell’aprile 2016. Dopo aver scoperto LS1, gli astronomi ne hanno anche misurato lo spettro, che suggerisce che la stella sia una supergigante blu di classe spettrale B. Si tratterebbe quindi di una stella blu e molto luminosa, con una temperatura che va dagli 11 ai 14 mila gradi, più del doppio della temperatura del Sole. “La luce di LS1 non è stata ingrandita solamente dalla grandissima massa totale dell’ammasso, ma anche da un oggetto compatto di circa tre masse solari all’interno dell’ammasso,secondo un effetto chiamato microlensing gravitazionale”, ha aggiunto Diego. La lente potrebbe esser stata prodotta da una stella normale, oppure un oggetto compatto come una stella di neutroni o un buco nero di massa stellare, e pertanto studiare questi fenomeni di microlensing, seppur molto rari, ci permette di fare un censimento degli oggetti che altrimenti risulterebbero invisibili, come ad esempio i buchi neri. Conoscere la composizione degli ammassi di galassie, soprattutto degli oggetti più difficili da osservare con i telescopi, può aiutarci anche a capire meglio la percentuale di materia non visibile, raccogliendo così importanti indizi sulla materia oscura.
Nell’immagine: L’ammasso MACS J1149.5+2223 con l’immagine della stella LS-1
(NASA & ESA and P. Kelly (University of California, Berkeley)
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30/03/2018 - Scoperta una “galassia fantasma” senza materia oscura
Scoperta una “galassia fantasma” senza materia oscura
Non tutte le galassie sono maestose come la Via Lattea o la Galassia di Andromeda. Alcune contengono pochissime stelle e hanno un aspetto così evanescente da essere a malapena visibili. E fra queste “galassie fantasma” ce n’è una ancora più strana, che sembra quasi completamente priva di materia oscura. A scoprirlo è stato un team coordinato da Peter van Dokkum dell’Università di Yale, che si è concentrato sulla galassia NGC 1052-DF2 a 65 milioni di anni luce da noi. Secondo i dati di van Dokkum, la galassia contiene infatti 400 volte meno materia oscura di quanto atteso. La scoperta, pubblicata su Nature, potrebbe aiutarci a scoprire nuovi fenomeni che portano alla creazione di una galassia.
La scoperta è stata condotta con il Dragonfly Telephoto Array, un sistema di obbiettivi a grande campo appositamente sviluppato per scoprire le galassie più deboli ed evanescenti. La galassia è stata poi analizzata più in dettaglio con i telescopi dell’Osservatorio Keck alle Hawaii, che hanno permesso di misurare il moto di 10 ammassi globulari nella galassia. La velocità di questi ammassi è legata al campo gravitazionale della galassia, che dipende dalla quantità di materia (visibile e oscura) presente nella galassia. Le velocità sono circa un terzo di quanto atteso, e secondo gli astronomi questo dipende dal fatto che nella galassia c’è molta meno materia oscura di quanto atteso. Come si possa formare una galassia come DF2 è ancora tutto da scoprire, anche se la causa potrebbe essere nella presenza di forti venti stellari che hanno “spazzato via” la materia oscura, oppure nella frammentazione di una galassia più grande, da cui sarebbe poi nata questa curiosa isola cosmica.
Nell’immagine: La galassia NGC 1052-DF2 ripresa dal telescopio spaziale Hubble (NASA, ESA, and P. van Dokkum (Yale University))
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27/03/2018 - Tutto il ferro di Kepler 229b
Tutto il ferro di Kepler 229b
A prima vista sembra un semplice gemello della Terra, ma al suo interno nasconde un pesante segreto. Pesante in senso letterale perché il pianeta K2-229b, poco più grande della nostra Terra, sembra racchiudere un gigantesco nucleo ferroso, che rende questo pianeta molto simile a Mercurio piuttosto che al nostro. A scoprirlo è stato un team internazionale, che ha sfruttato i dati della fase estesa di osservazione del telescopio spaziale “Kepler” e dello strumento Harps installato al telescopio riflettore da 3,6 metri installato all’Osservatorio Australe Europeo. La scoperta, pubblicata su Nature Astronomy, ci aiuterà a capire la formazione dei pianeti, in particolare di quelli rocciosi come la Terra e Mercurio.
Il lavoro, a cui hanno partecipato Francesca Faedi e Aldo Bonomo dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, è partito dai dati di “Kepler”, che ha osservato la stella K2-229 fra luglio e settembre 2016, scoprendo tre pianeti fra cui K2-229b, che è il più vicino dei tre e orbita intorno alla stella in appena un giorno. Grazie all’analisi delle velocità radiali del pianeta è stato possibile determinarne la massa, che sembra essere 2,6 volte quella del nostro pianeta. Secondo i ricercatori ciò è dovuto al fatto che in K2-229b circa il 70% della massa è costituita da ferro, analogamente a quanto accade per Mercurio. Non è chiaro come si possa esser formato un pianeta così pesante, e secondo gli scienziati la spiegazione potrebbe essere in un violento scontro planetario che avrebbe strappato gli strati più esterni del pianeta, un episodio simile a quanto ci aspettiamo sia accaduto nel lontano passato di Mercurio.
Nell’immagine: Raffigurazione artistica di K2-229b (NASA/JPL)
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22/03/2018 - Ariel, la nuova missione europea studierà i pianeti extrasolari
Ariel, la nuova missione europea studierà i pianeti extrasolari
Sarà lanciata nel 2028 e studierà in dettaglio le atmosfere dei pianeti extrasolari. E’ questo il profilo dell’Atmospheric Remote-sensing Infrared Exoplanet Large-survey (Ariel), la nuova missione di classe media selezionata dall’Agenzia Spaziale Europea nell’ambito del programma spaziale Cosmic Vision. Ariel ci aiuterà a capire più in dettaglio i meccanismi alla base della formazione degli esopianeti, analizzando in particolare le atmosfere dei pianeti extrasolari.
Oggi conosciamo migliaia di pianeti extrasolari, ma diversi aspetti non sono ancora chiari, ad esempio quale sia il legame con la stella principale, e quali siano i rapporti fra la composizione chimica di un pianeta e quella dell’ambiente circostante. Si tratta di problemi ancora da risolvere e che ci aiuteranno a capire meglio la formazione e l’evoluzione dei pianeti.
La missione ha avuto la meglio su altri due progetti: Turbulence Heating Observer (THOR), dedicato allo studio del vento solare e alle turbolenze del plasma nello spazio, e X-ray Imaging Polarimetry Explorer (XIPE), un telescopio spaziale dedicato alla polarimetria nei raggi X. Ariel verrà posizionato nel punto lagrangiano L2, a circa 1 milione e mezzo di chilometri dalla Terra, e osserverà per almeno quattro anni con il suo telescopio principale da un metro di diametro. Nell’occhio di Ariel ci saranno le atmosfere dei pianeti extrasolari, di cui verrà fatta un’analisi chimica con una precisione senza precedenti, per capire più a fondo quali sono le condizioni necessarie alla formazione dei pianeti e allo sviluppo della vita.
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16/03/2018 - Dov'è STEVE? La NASA e gli astrofili a caccia le aurore più strane
Dov'è STEVE? La NASA e gli astrofili a caccia le aurore più strane
A volte il cielo si tinge di viola e di verde, con lunghissime strisce che solcano la volta celeste. I primi a vederle sono stati gli appassionati di fotografia, che si sono divertiti a riprendere queste curiose aurore boreali e a dar loro persino un nome simpatico, Steve. La scoperta ha poi attirato l'attenzione degli scienziati della NASA, che hanno iniziato a studiare questi fenomeni assegnando loro il nome di Strong Thermal Emission Velocity Ehnancement, in modo da mantenere la sigla STEVE. Si tratta di un tipo di aurora polare ancora misterioso, e allora la NASA ha chiesto ufficialmente l'aiuto degli appassionati di tutto il mondo tramite, che possono andare a caccia di aurore e segnalarle sul sito Aurorasaurus, un interessante progetto di citizen science dedicato a questi curiosi fenomeni atmosferici.
Grazie ad Aurorasaurus è infatti possibile tenere traccia delle posizioni e degli istanti in cui le aurore compaiono. Non sono quelle normali ma anche quelle più curiose e strane come appunto il fenomeno degli STEVE. La NASA ha anche rilasciato un particolare “identikit” di STEVE, che gli appassionati possono utilizzare per scovare questi fenomeni nelle loro fotografie. Capire i processi fisici coinvolti nelle aurore è molto importante anche per studiare come possono influenzare il funzionamento dei satelliti e delle comunicazioni satellitari.
MR
Nell’immagine: Un esempio di STEVE (NASA/Krista Trinder)
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14/03/2018 - Ci ha lasciati Stephen Hawking, il celebre astrofisico della “Teoria del tutto”
Ci ha lasciati Stephen Hawking, il celebre astrofisico della “Teoria del tutto”
Era uno dei volti più noti dell’astrofisica mondiale, uno scienziato di primo piano e un divulgatore di altissimo livello. Stephen Hawking si è spento questa mattina all’età di 76 anni nella sua abitazione a Cambridge, dove viveva con la famiglia. Il suo “Dal Big Bang ai buchi neri”, pubblicato nel 1988, è diventato in poche settimane un bestseller e oggi è considerato un classico della divulgazione scientifica. Hawking era affetto da sclerosi laterale amiotrofica, malattia invalidante che lo colpì giovanissimo e lo costrinse all’immobilità negli anni Ottanta, ma non gli impedì di fornire importantissimi contributi scientifici e di diventare una vera e propria icona a livello mondiale.
Hawking era nato l’8 gennaio 1942, lo stesso giorno dell’anno in cui morì Galileo, e per una curiosa coincidenza è scomparso oggi, nel giorno in cui era nato Einstein. I suoi contributi più importanti riguardano la cosmologia e la termodinamica dei buchi neri, con la famosa “radiazione di Hawking”. Titolare della prestigiosa cattedra lucasiana di matematica all’Università di Cambridge per trent’anni fino al 2009, Hawking era direttore del Dipartimento di Matematica e Fisica Teorica dell’Università di Cambridge. Negli anni era diventato uno degli scienziati più famosi del mondo, grazie anche alla sua grande attività divulgativa, iniziata con il successo del saggio “Dal Big Bang ai buchi neri” pubblicato nel 1988. Recentemente la sua vita era stata al centro del film di successo “La Teoria del Tutto” uscito nel 2014, che aveva reso ancora più popolare la sua figura, una vera e propria icona della scienza moderna.
Nell’immagine: Stephen Hawking nel 2008 in occasione di una lezione per il cinquantenario della NASA (Credits: NASA/Paul Alers)